LA NUOVA POLITICA COMMERCIALE DEGLI STATI UNITI - LA NOTA DEL CENTRO STUDI CONFINDUSTRIA
13/02/2025
Il Centro Studi di Confindustria ha bubblicato la nota “La nuova politica commerciale degli Stati Uniti: scenari e canali di trasmissione. I settori e i prodotti europei e italiani più a rischio”.
La America First Trade Policy della seconda amministrazione Trump si annuncia più aggressiva e imprevedibile dell’approccio adottato nel primo mandato e minaccia una escalation protezionistica che potrebbe ridisegnare la geografia degli scambi mondiali.
Il 1° febbraio 2025 il neopresidente USA ha annunciato dazi addizionali del 25% sulle importazioni da Canada e Messico, introdotti il 3 febbraio e sospesi l’indomani per un mese, e del 10% su quelle dalla Cina, entrati in vigore con efficacia immediata, e la reintroduzione di tariffe al 25% su tutti gli acquisti all’estero di acciaio e alluminio, che erano sospese per un gruppo di paesi “amici”, tra cui quelli UE (dal 2021). I paesi colpiti hanno annunciato contromisure tariffarie sulle merci USA.
Obiettivi e strumenti delle politiche USA travalicano l’ambito commerciale, per includere temi di sicurezza nazionale e geopolitica: riduzione delle dipendenze dall’estero, difesa dell’industria, rafforzamento della leadership nelle nuove tecnologie.
Dazi selettivi per paese e/o prodotto sono uno strumento per: negoziare obiettivi diversi, come il controllo delle frontiere (escalate to de-escalate); ridurre la forza contrattuale delle controparti (divide et impera); contenere la traiettoria tecnologica della Cina (decoupling).
I dazi sono una tassa, pagata dagli importatori, che si scarica su famiglie e imprese statunitensi. L’impatto finale è un aumento (una tantum) dei prezzi al consumo. L’entità della trasmissione dipende dalle politiche di prezzo degli esportatori (che possono abbassare i loro prezzi) e dei produttori domestici (i cui margini possono assorbire parte dell’aumento dei costi) e dagli aggiustamenti del cambio (che anticipano i dazi e possono compensarli). I lavori empirici basati sull’esperienza della prima amministrazione Trump mostrano che i dazi si sono scaricati interamente su prezzi di acquisto (con delle eccezioni, per esempio nell’acciaio), con un impatto finale di minori margini per le imprese e maggiori prezzi per i consumatori.
I dazi non incidono significativamente sul deficit commerciale ed hanno impatto negativo sul PIL del paese che li impone: circa -0,2% stimato in seguito ai dazi del Trump I (2018-2019). L’impatto si amplia nel lungo periodo, perché la minore concorrenza internazionale e la sopravvivenza di imprese meno efficienti riducono la crescita economica potenziale.
Sotto il profilo del consenso politico, i dazi sono percepiti in maniera positiva fra i settori e nei territori maggiormente esposti all’integrazione globale dei mercati, alla competizione internazionale ed alla concorrenza di produttori considerati rivali, soprattutto quelli accusati di adottare pratiche commerciali illecite e/o sleali, come la Cina.
A livello internazionale gli effetti sono potenzialmente molto distorsivi, lungo molteplici canali di trasmissione: dalla riconfigurazione dei flussi bilaterali e delle catene di fornitura su scala globale; ai flussi intra-company, che nel caso degli USA riguardano molte imprese multinazionali; all’incremento di flussi e triangolazioni commerciali e produttive in paesi terzi collegati (ad es. Vietnam nel caso della Cina e Messico nel caso degli USA); alla digressione generalizzata degli scambi (le merci che non trovano più accesso al mercato USA cercano altre destinazioni); alla rilocalizzazione negli USA di alcune filiere strategiche (come ad esempio quella dei metalli); all’inaridimento complessivo delle collaborazioni industriali, incluse quelle votate alla ricerca e all’innovazione.
Data l’eterogeneità e l’asincronia di questi effetti, l’impatto complessivo è, dunque, difficile da stimare. Esso dipende da molte variabili: la distribuzione dei dazi per paese/prodotto, l’aliquota e la durata dei dazi, l’elasticità della domanda al prezzo dei prodotti, la reazione del tasso di cambio, l’esposizione ai dazi dei partner commerciali. Per l’Italia e l’Europa si prefigurano considerevoli rischi, accanto, tuttavia, ad alcune opportunità, in termini di quote di mercato potenzialmente contendibili nel mercato USA liberate dal decoupling con la Cina.
Non di meno, queste variabili alimentano l’incertezza, che frena gli scambi di merci, servizi e capitali produttivi. In base a precedenti analisi del Centro Studi Confindustria, un aumento persistente del 10% dell’incertezza mondiale sulla politica economica è associato a una minore crescita (nel trimestre successivo) di quasi mezzo punto percentuale del commercio mondiale, a seguito sia di un rallentamento dell’attività industriale che di una minore intensità degli scambi.
Nel caso dell’Italia, le connessioni economiche sono estremamente profonde. Gli USA sono la prima destinazione extra-UE dell’export italiano di beni e di servizi e la prima in assoluto per gli investimenti diretti all’estero.
Nel 2024 le vendite di beni italiani negli USA sono state pari a circa 65 miliardi di euro, generando un surplus vicino a 39 miliardi. Nonostante un calo nell’ultimo anno, il mercato statunitense ha offerto il contributo più elevato in assoluto alla crescita dell’export italiano dal pre-Covid.
Gli investimenti diretti dell’Italia verso gli Stati Uniti ammontano a quasi 5 miliardi all’anno, il 27% del totale (media 2022-2023); 1,5 miliardi annui, invece, i flussi dagli USA in Italia. Il deflusso netto di capitali è un segnale di dinamicità delle multinazionali italiane (anche grazie agli incentivi USA), ma anche di limitata attrattività del mercato italiano per i capitali americani.
Le multinazionali americane sul territorio italiano, comunque, sono le prime per numero di occupati (più di 350mila nel 2022), contribuendo per più di un quinto al valore aggiunto nazionale e alla spesa in ricerca e sviluppo. La presenza delle multinazionali USA è particolarmente importante nella manifattura italiana, dove sono concentrati più di 110mila addetti. Nel comparto elettronico e ICT, il 90% delle multinazionali extra-UE è di proprietà USA.
Quasi tutti i settori manifatturieri italiani godono di un surplus commerciale con gli Stati Uniti. Macchinari e impianti (primo settore esportatore), farmaceutica (primo settore importatore, nonostante un surplus pari quasi al doppio del valore), autoveicoli e altri mezzi di trasporto, alimentari e altri beni manifatturieri generano, insieme, quasi tre quarti del surplus italiano con gli USA (dati 2023).
Il settore primario, invece, registra un deficit, alimentato soprattutto dagli acquisti di gas naturale, che hanno contribuito a sostituire le forniture russe (per quasi 7 miliardi di euro in Italia e 70 in Europa nel 2023). Un aumento dell’import di gas potrebbe rientrare nel negoziato transatlantico stemperando le istanze di riequilibrio della bilancia commerciale.
L’export italiano è più esposto della media UE al mercato USA: 22,2% delle vendite italiane extra-UE, rispetto al 19,7% di quelle UE. Tra i settori maggiormente esposti spiccano le bevande (39%), gli autoveicoli e gli altri mezzi di trasporto (30,7% e 34,0%, rispettivamente) e la farmaceutica (30,7%).
Viceversa, l’import italiano è meno dipendente della media UE dalle forniture USA: 9,9% rispetto a 13,8% degli acquisti extra-UE. I comparti più dipendenti sono il farmaceutico (38,6%) e le bevande (38,3%), che lo sono anche dal lato dell’export. Ciò evidenzia la profonda integrazione di queste filiere produttive ed il loro elevato rischio in caso di dazi e ritorsioni.
L’esposizione italiana agli USA aumenta se si considerano anche le connessioni produttive indirette, cioè le vendite di semilavorati che sono incorporati in prodotti per il mercato USA. In base a stime del Centro Studi Confindustria, è attivata direttamente e indirettamente dal mercato USA una quota significativa delle vendite totali (estere e domestiche) del farmaceutico (17,4%) e degli altri mezzi di trasporto (16,5%). Seguono gli autoveicoli, i macchinari e impianti, gli altri manifatturieri, pelli e calzature. Per il totale manifatturiero, il peso degli USA come mercato di destinazione è pari a circa il 7% delle vendite (5% da flussi diretti e il restante da connessioni indirette).
L’Italia e gli altri paesi UE esportano una grande varietà di prodotti negli USA (80% di tutte le categorie vendute dall’Italia nel mondo e più del 90% dalla UE).
Per individuare i prodotti più a rischio di eventuali dazi USA, abbiamo formulato tre criteri granulari di selezione, in base a: i) esposizione delle esportazioni; ii) livello di surplus bilaterale; iii) strategicità dei prodotti secondo la logica USA di sicurezza economica. Anche in base a questi criteri, rispetto al complesso dei paesi membri, l’export italiano è maggiormente diversificato. Inoltre, i prodotti strategici americani sono più rilevanti sia in termini di varietà che di valore per la media dei paesi europei.
I primi settori per tutti e tre i criteri (esposizione, surplus e strategicità), sia per l’Italia che per l’Europa, sono quelli della chimica e del farmaceutico. I solidi legami produttivi tra le due sponde dell’Atlantico potrebbero essere un deterrente alla rincorsa tariffaria: oltre il 70% dello stock di capitali investiti dalle imprese farmaceutiche UE nei paesi extra-Ue è diretto negli USA; la quota è la stessa per le multinazionali farmaceutiche tedesche mentre quelle italiane sfiorano il 90%.
Altri prodotti italiani per cui è rilevante il mercato americano, secondo i criteri di esposizione e surplus, comprendono anche mezzi di trasporto, macchinari e alimentari e bevande: settori merceologici con alta propensione all’export, per i quali la domanda statunitense si è rafforzata negli ultimi anni, quindi altrettanto potenzialmente uno strumento di negoziazione per l’amministrazione USA.